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VINDICES | Spettacolo in lingua latina
Torino, 16-17 febbraio 2023

Giovedì 16 febbraio 2023 ore 10:00
Pubblicato: Lunedì 6 febbraio 2023
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16 e 17 febbraio 2023
CASA DEL TEATRO RAGAZZI E GIOVANI (TO)
www.casateatroragazzi.it


Un progetto della Société Internationale des Amis de Cicéron (Paris), prodotto dalla Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani ONLUS, con il sostegno del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino 

Spettacolo in lingua latina, liberamente ispirato a Titus Andronicus di William Shakespeare con la regia e drammaturgia di Micol Jalla, con Rebecca Deandrea, Vittorio Dughera, Marco Giordano, Ludovico Giurlanda, Micol Jalla, Francesco Romeo, Simone Valentino. Il testo latino è a cura di studenti dell'Università del seminario diretto da Ermanno Malaspina.
La scenografia e la consulenza registica sono di Claudia Martore. Disegno e luci di Agostino Nardella, progetto sonoro di Filippo Conti con musiche di Lorenzo Veglia e costumi di Ettore Ventura.
Assistente Rebecca Deandrea.


"Se non fosse stato per Ermanno Malaspina, mio docente all’Università di Torino, non penso mi sarebbe mai venuto in mente di scrivere e dirigere uno spettacolo in latino. Eppure, non appena ho iniziato a parlarne con amici e colleghi, ho sentito un interesse e un entusiasmo che non mi sarei certo aspettata. E così è iniziata un’avventura divenuta subito corale attraverso la partecipazione dei miei compagni di università che partecipavano al seminario del professor Malaspina, che hanno lavorato alla traduzione del testo, e la collaborazione di Claudia Martore, scenografa dello spettacolo, che mi ha suggerito l’idea di lavorare su un adattamento del Tito Andronico di William Shakespeare. Al Festival internazionale del teatro in lingua latina, Thalia, promosso da Schola Humanistica, che si è svolto a Vicenza tra l’1 e il 7 agosto 2022, lo spettacolo ha ottenuto la corona argentea. 
Mentre ci preparavamo ad andare in scena, abbiamo continuato a chiederci: ma perché uno spettacolo in latino? E soprattutto, per chi? Il teatro è un mezzo efficace non solo per raccontare storie e suscitare emozioni, ma anche per comunicare conoscenze e valori. Ci siamo detti che con questo spettacolo potevamo trasmettere l’idea che il latino può anche essere divertente, e che un testo in lingua originale può essere compreso, almeno nelle sue linee generali, pur non avendo anni di studio alle spalle e un dizionario sotto gli occhi. Senza per questo dover banalizzare la lingua, anzi: costruendo un testo in latino rigoroso dal punto di vista linguistico e letterario e al tempo stesso comprensibile da parte di un pubblico ampio, di non specialisti.
La riflessione che vogliamo portare avanti è quindi di portata generale, relativa a tutte le strategie, altre dalla sola parola, che possiamo mettere in atto per comprendere e far comprendere una lingua diversa dalla nostra, mettendo in luce quanti significati sono trasmessi da gesti, espressioni, toni di voce, insomma da elementi della situazione comunicativa che - importanti almeno quanto le parole - sono universali proprio in virtù della loro natura extralinguistica. E questa è una consapevolezza preziosa, a maggior ragione in un periodo storico come questo, in cui è fondamentale, soprattutto per le nuove generazioni, trovare strategie per comunicare con chi non parli la stessa lingua. 
Abbiamo scelto di rivolgerci in particolare agli studenti delle scuole superiori, per i quali con i miei colleghi Alessia Grillone, Anna Magnaldi e Lorenzo Severin abbiamo progettato e sviluppato un percorso didattico, Discere in Scaena, che ora stiamo sperimentando in diversi istituti del Piemonte per dimostrare agli studenti che il latino, pur non essendo una lingua viva, è più vitale di quanto non sembri, soprattutto se lo si studia in modi diversi da quelli tradizionali. Da questo punto di vista Vindices costituisce anche il punto di partenza di un percorso di ricerca incentrato sulle potenzialità della recitazione in latino che intendo sviluppare in vista della mia tesi magistrale.


"Che lo si voglia o no, il latino continua a costituire parte del nostro orizzonte culturale, perché circa metà degli italiani lo ha incontrato a scuola (con esperienze più o meno piacevoli), perché siamo circondati da ruderi, monumenti, epigrafi che ci riportano al latino e soprattutto perché l’italiano altro non è che una evoluzione del latino, nella quale, per di più, tiriamo dentro parole o frasi vecchie di duemila anni, spesso senza manco accorgercene o senza capirle (come successe a quel mio allievo di liceo che non si capacitava che aut aut non si scrivesse out out e che non fosse inglese...).
Parlare, però, nel latino di Cicerone o Virgilio è un’altra cosa e peggio ancora è scrivere e recitare in latino. A che serve tutta questa fatica? Ce la possiamo ancora permettere, volti come siamo alla transizione e alla resilienza (parole con radici latinissime)? Già prima di Vindices avrei risposto di sì – e per forza, direte voi, difendi il tuo stipendio – e avrei controbattuto che la competenza attiva di una lingua “straniera”, viva o morta che sia, migliora la competenza passiva in quella stessa lingua e migliora anche la consapevolezza nella propria lingua madre: scrivere (e magari anche parlare) in latino, quindi, per poter leggere e capire meglio sia il latino di 2000 anni fa sia l’italiano di oggi.
Sembrerà una risposta banale, ma spesso è la realtà dei fatti ad essere banale.
Poi però, nell’autunno del 2021 arriva il concorso Thalia, con la proposta di mettere in scena un testo in latino ex novo (ops! volevo dire from scratch); nello stesso tempo, so di poter contare, tra i miei laureandi, su una giovane che il teatro lo fa, e bene: Micol Jalla. E, a completare il tutto, trovo che buona parte degli studenti universitari che partecipavano con Micol al mio seminario di traduzione dal greco al latino sono disponibili a mettersi in gioco e a comporre un testo da portare poi in scena, anziché continuare a tradurre Isocrate con le clausole di Cicerone. Così è nata la nostra avventura, con il copione di Micol diviso per gruppi, che traducevano e rivedevano il lavoro degli altri, fino ad avere un testo latino pronto per le prove in estate e per la prima ad agosto, a Vicenza – e poi ancora rivisto e reso più compatto in autunno per le repliche al TRG.
Che cosa mi resta, a questo punto? L’orgoglio di aver guidato un gruppo di prodi determinati; la consapevolezza di un bel risultato letterario e teatrale; uno strumento didattico che sta già avendo successo nelle scuole. È già tanto, ma non è tutto: l’esperienza ha insegnato a me, “del mestiere”, e insegnerà a quelli che vedranno Vindices, che il latino scritto, parlato, recitato non serve solo a migliorare l’italiano e il latino letto e tradotto, come ho già detto. Assistere a Vindices regala un’esperienza emotiva, se non estetica, e, per rubare le parole a Micol, insegna che il latino, morto o vivo non importa, è comunque vitale, una lingua che ci fa battere il cuore.

La trama dello spettacolo, seppur molto semplificata rispetto all’originale shakespeariano, è intricata. Gli avvenimenti sono tanti e si susseguono con rapidità, ma lo spettatore, guidato dal racconto di un narratore molto partecipe, è chiamato più che a comprenderli nelle loro linee minute a coglierne le conseguenze e gli effetti interiori che generano nei personaggi.
Il generale Tito Andronico, dopo una vittoriosa campagna militare contro i Goti, rientra trionfante in Roma, che trova però in piena crisi: l’imperatore in carica è morto e si dibatte sulla successione. La plebs Romana lo vorrebbe imperatore per il suo valore e virtù, ma Tito rifiuta in favore di Saturnino, uno dei due figli del sovrano defunto: non sono l’ambizione al trono o la sete di potere a muovere le sue azioni. Anzi, l’aspetto cruento della vicenda inizia proprio con una dimostrazione di pietas di Tito, che sacrifica Alarbo, primogenito della regina gota prigioniera Tamora, in memoria dei propri numerosi figli caduti. Di qui ha inizio una catena interminabile di vendette, in una progressione di brutalità e violenza. Per rafforzare i legami con la famiglia imperiale, Tito promette in sposa a Saturnino sua figlia Lavinia, ignaro del suo matrimonio segreto con Bassiano, fratello di Saturnino. Bassiano e Lavinia, non potendo rinunciare al proprio amore, scelgono di fuggire da Roma, sostenuti dall’intera famiglia degli Andronici. Non però da Tito, che non tollera di disonorare la parola data all’imperatore e, con lui, alla patria intera, ed è disposto a tutto per impedire la fuga: combattendo, finisce per uccidere Muzio, uno dei suoi figli, cui - prima di essere convinto dal fratello Marco - intende negare la sepoltura nella tomba di famiglia. Lavinia e Bassiano, nel frattempo, sono riusciti a fuggire. Saturnino, offeso per l’affronto, decide di prendere in sposa Tamora, proprio la regina dei Goti il cui figlio era stato sacrificato da Tito: un matrimonio nel nome della vendetta nei confronti degli Andronici. La vendetta non tarda a compiersi: Demetrio e Chirone, figli di Tamora, stuprano e mutilano Lavinia, mozzandole mani e lingua perché non possa rivelare gli autori del misfatto, e uccidono Bassiano. La colpa viene fatta ricadere su Quinto, uno dei figli di Tito. L’imperatore Saturnino promette a Tito che, in cambio di una sua mano mozzata, i figli verranno risparmiati dalla sua clemenza; Tito accetta, ma in cambio della mano riceverà solo le loro teste. Il mondo sta crollando intorno a Tito; si sgretolano le sue certezze mentre si moltiplicano le manifestazioni della sua follia, iniziate con un’implorazione alle pietre, scambiate per tribuni, affinché salvino i suoi figli. Lavinia, scrivendo per terra con il bastone dello zio riesce a svelare i nomi dei suoi seviziatori, Demetrio e Chirone. Tito giura vendetta. Nel corso di un banchetto finale - fuori dalla nostra scena e narrato post mortem dalle vittime - Tito consuma la sua vendetta prima servendo a Tamora le carni dei figli Demetrio e Chirone e poi uccidendola. Infine, quale estremo atto d’amore paterno, strangola la figlia Lavinia per sollevarla dalla sua sorte disperata. Per vendicare l’uccisione di Tamora, Saturnino uccide Tito, e per vendicare il padre Lucio uccide Saturnino- Lucio, eletto imperatore, saprà ritrovare la pietas e la clementia e mettere fine alla catena di vendette e brutalità iniziata dal padre? La vendetta può avere fine?
Il tutto avviene sotto lo sguardo e con l’impulso, sempre più evidente ed ambiguo, di un narratore-regista che dà spazio a quel che più stimola il suo gusto di raccontare e omette quello che, per pudore o desiderio di elusione, preferisce tacere. Non visto dai personaggi, racconta o forse crea quel che avviene in scena, soffrendo per le disgrazie dei personaggi, pur riconoscendole come inevitabili. Talvolta porta avanti l’azione, talvolta cerca di frenarla, ora sembra dominarla, ora è invece evidente che la situazione gli sfugge di mano.


Nella bella Roma di fine impero, non così diversa da una città dei giorni nostri, è eletto imperatore il demone della Vendetta, che insozza le mani dei cittadini con il loro stesso sangue. Un sacrificio, la rinuncia a una carica e un matrimonio sbagliato innescano una catena di inganni, violenze e assassinii che sembra non avere fine. Undici morti, tre mani e una lingua mozzate, parecchi bicchieri rovesciati e bottiglie scolate. Come è possibile che sia finita così? Dopo tutto, a little party never killed nobody. O forse sì?

Ultimo aggiornamento: 06/02/2023 10:48
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